Capitolo Uno: L'inizio.

Io e lo sposo mio siamo cresciuti nello stesso paese. Un pugno di case appiccicate con lo sputo sulla collina, coi campi grandi come fazzoletti e i frutteti profumati come le pasticcerie di città.
La famiglia sua era fatta da signori. La mia da disgraziati.

Io ero una piccola vagabonda che si passava le giornate in giro a combinare chissà cosa e chissà con chi. Quel cornuto del parroco, la perpetua e le impiccione della piazza dicevano che ero nata guasta come la carne che si vendeva a valle, ed il mio destino sarebbe stato quello della femmina perduta.
Pensare che c’avevo le mie buone ragioni per stare sempre fuori casa e tutti lo sapevano benissimo. Ma si sa che a farsi i fatti propri si campa cent’anni e degli altri chi se ne fotte!

Il babbo mio aveva due grandi passioni: il vino e le donne. Il vino lo beveva, le donne le menava. Era grasso e pigro, sempre troppo stracco per alzare il culo ed andare a lavorare, ma quando c’era da rincorrerci con la cinghia recuperava tutte le energie. Ribaltava il tavolo, rompeva le sedie e ci urlava dietro le peggio cose. Tanto che io a cinque anni conoscevo certi insulti da fare rigirare i morti nelle tombe e far cadere l’aureola ai santi.

Quando lui tornava a casa con addosso quel puzzo acido che si sentiva dal fondo della strada, la mamma ci sbatteva fuori senza troppe cerimonie e rimaneva da sola ad affrontarlo, colpo su colpo e bestemmia su bestemmia.

Ho passato i primi anni della vita mia nascosta nella stalla, mano nella mano con Lucia.
“Nun te preoccupà, Adelì, vedi che mo la smettono”, mi diceva la sorella mia, cercando di convincere un poco lei e un poco me.
“Annamo via”, frignavo col cuore che mi batteva come quello d’un uccelletto.
“No, nun possiamo lasciare la mamma da sola.”
“Torniamo quando lu babbo dorme.”
“E se lei c’ha di bisogno prima?”
“Pe piacere, Lucì.”
“No, t’ho detto de no. Ce ne stiamo qua bone bone.”

La sorella mia non è mai stata piccina ma ha avuto la disgrazia di nascere già grande. Una di quelle donnine fatte e finite, giudiziose fin dalla culla, condannate a fare sempre la cosa giusta.
Lei sì. Ma io no.
“Du figlie più diverse nun me potevano uscì”, diceva sempre mamma, “Una è na santa e l’altra è uguale a quell’ubriacone bono a gnente de babbo suo. Nata pe famme disperà”.

Non arrivavo ancora a sei anni quando scappai per la prima volta. Lasciai la mano di Lucia e corsi lontano, fuori dalla stalla, come un animaletto che fugge dal foco. Mi fermai solo all’inizio dello stradone che portava a valle. Lì ci stava un gruppo di ragazzetti un poco più grandi di me. Uno a cavallo su un ramo di ceraso. Gli altri, a terra, ad acchiappare al volo i frutti.
“E sta qua chi è?”, chiese uno di loro.
“Na figlia delli Carretta”, rispose un altro.
“E che vole?”
“E che ne so io! Chiedicelo a lei.”
“Ehi tu, bestiolina, ce l’hai la lingua o babbo tuo se l’è vennuta pe nu fiasco de vino?”
“Eccerto che ce l’ho, cojone!”
Mi guardarono con le bocche aperte da fessi. Poi Maso, quello sull’albero, scoppiò a ridere e gli altri dietro a lui.
Ora pure io c’avevo degli amici.

Continua...

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