Capitolo Diciassette: Il corredo, il granato, e l'animo pesante

Augusto tornò a trovarci l’indomani, il giorno dopo ed il giorno dopo ancora. Insomma: ce l’avevamo sempre tra i piedi.

Mamma mia, appena poteva, lo invitava a fermarsi pure per cena, e spesso mi spediva perfino a comprare un poco di carne da aggiungere alla zuppa. Io non ci capivo più niente: noi ci ammazzavamo di fatica per un tozzo di pane e ora buttavamo i soldi per far contento quello lì?
“Augusto è abituato a magnare come se deve”, mi spiegava mamma.
“E nun pò starsene a magnà alla casa sua? Da noi deve venire?”
“Nun me fare incazzà, Adelì, ricordate che lo dobbiamo trattare come nu principe.”

Negli ultimi quattro anni eravamo sempre state solo noi tre intorno allo stesso tavolo. E alla maniera nostra eravamo state felici. Non avevamo avuto bisogno di nessuno, soprattutto non di un altro uomo in casa che si mettesse a fare il padrone. Ora però ci stava questo estraneo, seduto capotavola, a succhiare il brodo dal cucchiaio del babbo.

Ma la cosa che mi faceva venire davvero il nervoso era che più conoscevo Augusto e meno riuscivo a farmelo stare  antipatico. Gliel’avevo giurata da quando mi aveva fatto venire la chiappa viola, ma ora che ero costretta a passarci un poco di tempo assieme dovevo ammettere che non era poi così male. Certo, mangiava quanto noi tre messe assieme, accidenti a lui. Ma era sempre gentile e non si dava manco la metà delle arie che si davano gli altri parenti suoi. E poi aveva un bel modo di guardare Lucia. Il suo era proprio il modo giusto. Non quello furbo di Emilio o quello zozzo degli altri porci del paese, ma quello pulito e sincero che ogni uomo dovrebbe dedicare alla donna sua e che io non avevo visto mai, da nessuna parte, figurarsi a casa nostra.

Sorella mia ricamava e lui la guardava come se stesse facendo un dipinto, sorella mia gli cuoceva la zuppa e lui la tirava su con un risucchio soddisfatto manco fosse un piatto da re, sorella mia gli sorrideva e a lui s’intorcinava la lingua e non riusciva più a parlare come si deve per cinque minuti buoni. Insomma, s’era preso proprio una gran botta, una di quelle serie, una di quelle che delle volte ti fanno far la figura del fesso ma che ti riempiono il cuore.

Ma mentre Augusto guardava Lucia e vedeva una principessa, tutti i parenti suoi vedevano solo un bel faccino con le mani vuote. La sorella mia non teneva neanche un soldo di dote ed ai Parise non poteva portare né uno sputacchio di terra né una gallina zoppa. Ma il corredo sì. Quello lo dovevano portare tutte, pure le pezzenti come noi.
Ora queste cose non si usano più, ma una volta il corredo era un affare serio e le famiglie iniziavano a prepararlo per le figlie femmine quando queste si facevano ancora la pipì addosso. La biancheria doveva essere bella e durare tutta la vita. Le cose non si buttavano mica via al primo buchetto come si fa adesso.

Un corredo completo era una spesa enorme se lo si comprava o un lavoro da pazzi se, come nel caso nostro, lo si preparava a mano. Per risparmiare soldi e fatica mamma passò a Lucia le lenzuola più belle che conservava dai tempi delle nozze sue, ma che non aveva usato mai. Le aveva preparate assieme a nonna Ada, molti anni prima di conoscere il babbo, quand’era una bimbetta e sognava un marito per bene e tanti figlioletti. C’erano ricamati angeli e rose ed erano tanto raffinate che il posto loro non sembrava mica il letto di due contadini in un paesello, ma quello del re e della regina che stavano a Roma.
Tutte noi tre assieme ci occupammo del resto. Lavorammo come dannate per quasi sei mesi. Metà del tempo lo dedicavamo ai mestieri che ci dava la Barbagallo e l’altra metà al corredo della sorella mia. I giorni non erano mai abbastanza lunghi, gli occhi ci si facevano piccoli piccoli dalla fatica e gli stomaci talmente vuoti che dentro ci si sentiva l’eco.
Dopo quattro mesi di quest’inferno un giorno, mentre stavo a dare da mangiare alle galline, vidi arrivare la Pazza.
“Ciao Adelì, perché nun te fai più vedè? Si arrabbiata co me? T’ho fatto qualcosa? Nun sei più amica mia?”, mi chiese senza prendere aria.
“Nun m’hai fatto gnente, ma nun tengo lu tempo manco pe respirà altro che venirte a fare nu saluto.”
“E perché?”
“Perché devo faticà.”
“E perché?”
“Se nun se fatica nun se magna.”
“Nun è vero! Io magno sempre la zuppa della Signora ma nun fatico mica.”
“Beata a te!”
“Voi che ce chiedo alla Signora se te fa la zuppa pure a te?”
“Grazie Annamarì ma nun è na bona idea.”
“Perché?”
“Perché no.”
“E perché no?”
“Perché nun sono na pezzente.”
“E che è na pezzente?”
“Marò Annamarì, nun c’ho tempo pe dare retta alle fesserie tue! E cresci nu poco!”, e la mollai in mezzo al cortile con gli occhioni che già le si allagavano tutti.

Due giorni dopo, al ritorno da una commissione in paese, passai davanti a casa sua e quell’anima buona mi venne incontro urlando: “Adelì, che bello che si venuta!”
“Veramente sto solo a passare, devo tornare subito alla casa, se no chi la sente mamma mia.”
“Dai viene nu minuto dentro.”
“Nun posso Annamarì”, le risposi sbuffando.
“Vieni, veloce veloce, c’ho avuto n’idea pe no farte faticà più”, mi disse a voce bassa, mettendosi una mano davanti la bocca come fanno le creature quando raccontano un segreto.
“E va bene, ma nu minuto solo” e la seguì in casa.
Lei andò subito a prendere una scatola di latta: “Questi so li tesori mia. So cose importanti. La Signora dice sempre che so meglio dell’oro e che me li devo tenere stretti stretti.”
“E a me che me frega delli tesori tua?” 
“Ho pensato che te ne regalo uno, cuscì tu ce fai li soldi e nun c’hai più bisogno de faticà.”
Aprii la scatola solo per farla contenta e poter tornarmene subito a lavorare. Dentro ci stavano tre bottoni, una matassa di filo, un nastro di raso giallo, qualche dente marcio, una treccia di capelli e il ritratto di un uomo con gli occhi da ranocchio: “E questo chi è?”
“Lu babbo mio.”
“C’hai nu babbo?”
“Eccerto. Me l’ha spiegato la Signora: nun è vero che li bambini nascono sotto nu cavolo. Ce vole nu babbo e na mamma che se vogliono bene. Nun lo sapevi?”
Ma io manco l’ascoltavo più perché m’ero accorta che al fondo della scatola, sotto tutte quelle schifezze inutili, ci stava un anello. Un pataccone con un granato grande quanto un cecio.
“E questo?”
“Era de mamma mia ma a me nun me piace quel sasso scuro scuro. A me me piace lu nastro giallo. Hai visto che bello che è? E’ lu preferito mio, ma se lo voi te lo poi prendere.”
Quell’anima candida, con gli occhi da bambina e il muso pieno di rughe, mi sorrideva innocente mentre io, che innocente forse non c’ero stata mai, sentivo le mani che prudevano e mi mancava l’aria dalla voglia che c’avevo di prendermi quel gioiello. La Pazza non ce ne aveva di bisogno, a lei bastava la Signora che la serviva e riveriva meglio di una regina. Mentre noi Carretta c’ammazzavamo di lavoro per far contenti i Parise che, ad averci in famiglia una come Lucia, avrebbero dovuto ringraziare il Signore, altro che pretendere che noi ci facessimo sceme ed orbe dietro a ricami e merletti.
“Me prendo questo”, dissi stringendo forte il pugno.
“Va bene”, mi sorrise Annamaria, “cuscì te poi riposare nu poco e faticare de meno. Si contenta?”
“Sì, grazie, so proprio fortunata ad averce n’amica come a te.”
E me ne corsi via col cuore che mi batteva forte e le mani che mi sudavano. Corsi col vestito rattoppato e le scarpe rotte. Corsi a casa con la testa che mi scoppiava e lo spirito pesante.

“Era ora!”, disse mamma mia quando sentì aprire la porta, ma poi appena mi guardò in faccia: “Che c’hai? Che hai visto? Stai male?”
“Nun ve preoccupate, mo me passa”, dissi sedendomi in un angolo.
“Che tieni là?”, mi chiese Lucia facendosi vicina.
“Gnente.”
“Fammi vedere.”
“No.”
“Come no? Che nascondi?”
“Nun nascondo gnente. Guarda se ce tieni tanto. Guarda”, e le piantai la mano aperta davanti al muso.
“Nu bottone? E che ce fai co sto bottone?”
“Gnente, l’ho trovato pe strada.”

Mi mancò il coraggio o forse il cuore di prendere quell’anello. Ma quel bottone ancora lo conservo insieme alla catenina di nonna Ada e alla fede d’Augusto. Lo conservo per ricordarmi che la fame ed il bisogno ti possono far diventare peggio d’una bestia. Ma che io bestia non ci sono diventata mai.

Continua...

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