Capitolo Quattordici: Fessa io e stronzo lui.

Lucia è sempre stata bella. E’ nata splendida e uguale è rimasta per tutta la vita sua.
Prima di avere lei, la mamma aveva perso due piccoletti quando stavano ancora nella pancia e quasi non ci sperava più. Aveva passato nove mesi aspettando un’altra disgrazia, e non volendosi attaccare troppo alla fantasia di avere finalmente un figlioletto. Si trascinava dietro il pancione come una cesta di broccoli o una cassetta di mele. Un peso da portare in giro così come capita, senza sentimento.
Ma il 12 dicembre del 1918, con la neve che copriva ogni cosa ed il babbo svenuto a quattro di bastoni sul lettone, Lucia venne al mondo sopra il tavolo della cucina, tra nonna Ada che recitava il rosario ed Ines che bestemmiava contro “quell’omo de gnente”.

Quando babbo morì mia sorella aveva quasi quindici anni, la pelle ed i capelli chiari, la schiena dritta ed un portamento da signora. Teneva l’anima da ragazzina ma il corpo da donna.
In paese non ci potevano credere che una poveraccia come lei potesse essere così bella. Per strada la guardavano tutti ed io mi sentivo tanto orgogliosa e speciale ad essere l’unica sorella sua. Mi credevo che tutti gli uomini fossero innamorati di lei e che litigassero per decidere chi l’avrebbe maritata. Ero ancora troppo piccola per leggere negli occhi di quei porci le schifezze che pensavano veramente.

Comunque, a forza di essere guardata, ad un certo punto anche Lucia cominciò a guardare e fu subito colpita da Emilio Casotti, un ragazzone di vent’anni con un bel sorriso e lo sguardo malandrino. I suoi amici lo chiamavano il bell’Emilio, lui era più vanitoso di una femmina e gli piacevano le donne quasi quanto i capelli suoi. Teneva sempre una sigaretta in bocca per darsi un tono, ma non l’accendeva mai perché di soldi da spendere in tabacco ne aveva pochi.
Quando incrociava la sorella mia per strada, sorrideva appena, si passava la mano tra i ricci e gonfiava il petto come un tacchino.
“E’ proprio bello Emilio. Nun è vero Adelì?”, mi chiedeva Lucia tutta emozionata.
“Altroché, sembra n’attore dellu cinematografo”, le rispondevo.
“Vorrei tanto piacergli almeno nu poco.”
“Ma che fai, scherzi? Gli piaci. Gli piaci eccome.”
“Dici pe davvero?”
“Eccerto, mica è orbo: tu si la più bella de tutto lu paese.”
“E Costanza? E’ bella pure lei.”
“Ma quando mai? Quella c’ha la faccia da cavallo.”
“Però è già na donna fatta e finita: l’altro giorno c’aveva pure le labbra dipinte.”
“E faceva ridere: sembrava che aveva mangiato troppe cerase.”
“Però Emilio s’è fermato a parlare con lei davanti alla fontana. L’hai visto pure tu, no?”
“Sì, parlava co lei ma intanto guardava a te. Che la cavalla se n’è pure accorta ed è andata via de corsa, tutta arrabbiata, manco c’avesse lu pepe allu culo.”

Eravamo proprio due sceme. Non sapevamo niente né dell’amore né di come girava il mondo. Giocavamo con il fuoco ad un passo dalla catastrofe e neanche ce ne rendevamo conto. Io, che ero solo una bambina, facevo la grande esperta e quella cretina della sorella mia mi veniva pure dietro.
Intanto le settimane passavano e Lucia ed Emilio continuavano a guardarsi con tanto d’occhi. Lei arrossiva e sentiva negli orecchi già l’organo della Chiesa Grande, lui invece neanche me li voglio immaginare i pensieri zozzi che si faceva dentro quella capoccia tutta capelli.
Ad un certo punto quei due sciagurati passarono dagli sguardi agli incontri dietro al camposanto. Loro si mettevano alle spalle della cappella, mentre io me ne stavo di guardia all’angolo della strada.
“M’arcomanno Adelì, se arriva quarghidunu fischia. Sai fischiare, no?” mi chiedeva Emilio.
“Eccerto che so fischiare! So meglio d’un uccelletto.”
“Brava Adelì”, mi strizzava l’occhio facendomi sentire tutta importante. Fessa io e stronzo lui.
Io mi mettevo attenta attenta a fare la guardia come un cane, mentre quello faceva all’amore con la sorella mia.
Non so cosa Emilio promettesse a Lucia. Ma lei, dopo un mesetto di sta storia, camminava ad un metro da terra, sognava l’abito bianco e pure un branco di figlioli tutti belli come babbo loro.
“Se te dico na cosa nun la racconti a nisciunu, vero Adelì?”
“Croce su lu core, che me possa venì la cacarella pe na settimana.”
“Io credo proprio d’esserme nammorata.”
“Davvero?”
“Sì.”
“E come se capisce na cosa cuscì?”
“Penso sempre ad Emilio, me lo sogno pure la notte e quanno me bacia me balla tutto lu stomaco.”
“Te bacia? Sulla bocca?”
“Certo! E su cosa? Su li diti?”
“Ma nun te fa schifo?”
“No che nun me fa schifo. Li baci tra innamorati so dolci.”
“Davvero? Dolci come?”
“Come lu latte co lu miele.”
“E’ bono lu latte co lu miele.”
“Appunto.”

Per fortuna mamma nostra ha sempre avuto le antenne dritte sulla capoccia ed una sera a tavola, senza neanche alzare gli occhi dal piatto, ci disse: “Figlie mie, questa cosa ve la dico na volta sola e guai a voi se me la fate ripetere. Noi simo povere e le femmine senza dote nun se le piglia nisciunu. N’omo che vole convincerve de lu contrario è solo nu mascalzone.”
Lucia si fece pallida pallida: “Se c’è l’amore mica c’ha importanza la dote.”
“E mo che c’entra l’amore? Te facevo più furba. Tu si bella come lu sole e li omini te ronzano attorno come le api alli fiori, ma pe na poveraccia come a te la bellezza è peggio de na maledizione. Li omini te cercano ma mica pe sposatte. Apri li occhi prima che fai nu guaio.”
Alla sorella mia vennero i lucciconi per la rabbia e la mortificazione.

“Che farai mo?”, le sussurrai nel lettone a notte piena.
“Parlerò ad Emilio mio. Gli dirò che deve venire subito a farme la proposta alla casa, cuscì mamma se tranquillizza e capisce che le intenzioni sue so serie”, mi rispose.  

Lucia parlò ad Emilio. Lo attese quella sera, la sera dopo e la sera dopo ancora. Lui non si presentò mai.
A distanza di qualche tempo il bastardo sposò Costanza ed ebbero subito un pupo settimino. Quella aveva sì la faccia da cavallo, ma anche un poco di dote e soprattutto un babbo vivo che si presentò dai Casotti con il fucile in spalla.

Nel frattempo Lucia aveva lavato le pezze sporche di sangue e la mamma ringraziato tutti i santi del paradiso, che pure sta volta la rovina completa della famiglia ce l’eravamo evitata per poco.

La sorella mia soffrì e guarì senza drammi, che le sceneggiate vanno bene solo per chi ha tanto tempo libero, mica per chi s’ammazza di lavoro e deve pure spezzare il soldo in quattro. Il tempo per piangere ce l’hanno solo le signorine ricche. Quelle si chiudono in camera, si buttano sul letto e possono fare il teatro per settimane. Ma le poveracce che c’hanno da faticare rimuginano in silenzio, mentre se ne stanno ginocchioni immerse fino ai gomiti nella merda di pollo.

Intanto gli anni passavano e Lucia si faceva ancora più  bella, col viso dolce e sereno di una Madonna. Anche se quei porci del paese non la guardavano con il rispetto che si deve a una santa, ma con la voglia con cui si guardano delle coscette di pollo grasse e saporite. Lei, però, oltre che donna si era fatta pure furba, aveva imparato la lezione e non dava più confidenza a nessuno. Tanto che molti le parlavano dietro, dicendo che era superba e si credeva chissà chi. Che certa gente una parola buona se può non se la risparmia mai!

Anch’io mi stavo faticosamente sgrezzando ma si capiva che bella come la sorella mia non ci sarei diventata mai. A me un po’ dispiaceva ma per mamma era una benedizione, “che già cuscì ne ho abbastanza de pensieri” diceva.

Ci vollero quasi quattro anni per riuscire finalmente a pagare tutti i debiti che c’aveva lasciato il babbo. Continuavamo a lavorare come pazze ma riuscivamo a mantenerci con un poco di dignità. Facevamo sempre una gran fatica a portare da mangiare in tavola ma almeno adesso venivamo considerate delle persone per bene, dignitose, serie e senza grilli per la capoccia.
Io credevo che le cose non sarebbero mai cambiate, che saremmo sempre rimaste solo noi tre ed ero contenta. Perché così ci stavo bene, perché ogni tanto riuscivamo pure a farci qualche bella risata e perché anch’io, finalmente, c’avevo una famiglia come si deve.

Ma un giorno tutto cambiò.
Il giorno della proposta di matrimonio di Augusto Parise. Augusto mio.




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