Capitolo Tredici: La Barbagallo

Il giorno dopo in cucina trovai di nuovo ago e filo ad aspettarmi.

All’inizio non ero né veloce né precisa. Ma poi, a forza di stare curva sulla sedia, con il culo piatto, i diti che bruciavano ed il collo storto, guidata dalla pazienza di Lucia e dagli scappellotti di mamma, che di pazienza ne ha sempre avuta poca, imparai anch’io il mestiere.
Alla fine c’aveva ragione la Vedova del Dottore: io gli occhi da ricamatrice ce li avevo sempre avuti, era la voglia che m’era mancata.

Lavoravamo tutte e tre, tutti i giorni, tutto il giorno per preparare tovaglie, lenzuola e tende da vendere alle signore di città. C’ammazzavamo di fatica ma guadagnavamo una miseria ed in casa nostra di soldi ne continuavano a girare pochi, pure ora che non ci stava più il babbo a berseli.
Un giorno ci toccò perfino di vendere le vacche: due poveri animali con la pelle attaccata agli ossi, che non facevano più latte ed ormai erano buone solo per i cani. Quando ce le portarono via ci si bagnarono gli occhi, “Quante storie pe ste bestiacce”, ci sgridò mamma mentre si soffiava il naso peggio d’una tromba.


Se ripenso alla Barbagallo ancora mi prudono le mani dal nervoso. Quella vecchia disonesta, che a ricamare non era mai stata buona ma a far di conto sì, faceva da tramite tra le famiglie di città e tutte le ricamatrici del paese. Lavorava poco e si teneva una commissione altissima.
Si presentava ogni lunedì, puntuale come la morte, ed infilava il naso appuntino e gli occhietti tondi da sorcio dentro casa nostra.
“Le avete finite le lenzuola per il corredo della Moroni?”, chiedeva.
“Sì, c’abbiamo lavorato fino a tardi, ma guardate come so venute belle”, le rispondeva mamma.
“Carucce.”
“Avete visto che mani d’oro c’ha Lucia mia?”
“Sì, sì, signora Carretta.”
“E pure Adelina se sta facendo brava, nun c’ha li diti sottili de sorella sua ma tiene na bella fantasia.”
“Sì, vabbè, ma ora non mi fate perdere tempo, che c’ho da faticare io. Mica possiamo fare tutte la vita da signore come voi, che ve ne state tutto il giorno a casa col sedere al caldo. Io non posso stare mai tranquilla manco per un secondo, devo girare per tutto il paese, fare i conti e prendermi tante responsabilità. Non sapete come v’invidio!”
Mamma era una femmina orgogliosa ma con la Barbagallo diventava un’altra persona e la schiena dritta le si accartocciava tutta. Forse perché quella aveva fatto le scuole e mamma mia si metteva soggezione o forse perché da quella stregaccia dipendeva il pane sulla tavola nostra. E, per dar da vivere ai figli, anche i più duri imparano a toccarsi il petto col mento e, se c’è di bisogno, a baciare la punta delle scarpe del diavolo. A baciarla e pure a far finta che sia dolce come il miele.

“Questa è la parte vostra”, diceva il sorcio mettendo quattro soldi sul tavolo, “vi state facendo ricche”, e ridacchiava.
Che cavolo si ridacchiava quella stronza?
Noi a malapena ci riempivamo lo stomaco e lei ridacchiava?
Io me la sognavo la notte quella sua risatina con la bocca storta e le labbra sottili senza forma e colore. Sognavo di soffocarla con una ciabatta per farla finalmente smettere.

La Barbagallo si è fatta ricca alle spalle nostre. Ha sposato quelle tre racchie delle figlie sue grazie alla cresta sui guadagni e, quando finalmente è andata al Creatore, ha voluto farsi seppellire addobbata come una Madonna.
E’ morta da sola, e non ha lasciato niente manco ai nipoti ma ha preferito portarsi tutto dietro all’inferno. Che quando una è così avida ha anche il cuore piccolo e secco come la merda di capra, ed il bene vero non sa manco che cos’è.

Continua...

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