Capitolo tre: "La Pera e La Pazza"

D’inverno, nei giorni in cui era troppo freddo per stare fuori, invece di andarcene in giro a perder tempo ce ne andavamo a scuola. A perder tempo.

A quell’epoca là le femmine stavano da una parte e i maschi dall’altra.
La maestra mia era la signorina Cesira, una zitella che veniva dalla città e che a noi paesane ci guardava con lo schifo negli occhi. Era brutta come la fame, con la sua capoccetta tonda, le spallucce strette ed i fianchi talmente larghi che tra i banchi manco ci passava. La chiamavamo “La Pera”, perché era proprio tale e quale al frutto, larga sotto e stretta sopra, le mancava solo il picciolo in testa.
Alle poveracce come me ci metteva sempre in fondo, che tanto stare ad insegnare le cose ai morti di fame, specialmente se femmine, era fatica sprecata. Noi eravamo destinate a lavorare come muli e pregare di trovare un fesso che ci sposasse. A che ci serviva leggere, scrivere oppure fare di conto? A niente, pensava quella strega, e così ci chiedeva solo di starcene zitte, buone e non disturbare. Zitte, buone e ammazzarci di noia.

Per fortuna qualche volta a portare un poco di vita ci pensava La Pazza, che veniva a ballare e cantare di fronte alle finestre nostre. C’aveva l’età di mamma, ma si metteva a girare in tondo e ad alzare la gonna come una bambina. Girava e cantava. Girava e cantava, sempre più veloce e sempre più stonata.
La maestra Cesira non la poteva vedere. Ogni volta si faceva verde dalla rabbia e, con gli occhi che le uscivano di fuori, le urlava contro per scacciarla peggio d’una bestia. Ma La Pazza non si faceva impressionare e cantava più forte, girava più in fretta e si alzava la gonna ancora più in alto. Che delle volte le si vedevano persino le mutande. A quel punto arrivavano di corsa la Vedova del Dottore o la signora Agnese, la nonna di Augusto. Le parlavano piano piano, le sistemavano i capelli per benino dietro gli orecchi, le lisciavano la gonna sopra i ginocchi, se la mettevano sotto braccio e la portavano via, manco fosse una figlia loro.

La Pera proprio non lo capiva che cosa ci trovassimo tutti quanti in “questa sciroccata senza vergogna o dignità”, ma La Pazza faceva parte del paese nostro, come la cappella con la faccia scrostata di Santa Rita, la fontana senza acqua del portico o il muro mezzo cascato del frutteto grande. Noi li conoscevamo bene i difetti loro ma guai a chi ce li toccava.

L’unico vero problema a scuola mia era Angela. Quella gallina si dava le arie solo perché c’avevano il soldo, e le piaceva proprio tanto farmi i dispetti o dirmi le cattiverie.
Aveva tre anni più di me, pesava quanto un bue e menava peggio d’un uomo. Io, al confronto suo, ero un fringuellino, un mucchietto d’ossi leggeri leggeri, ma non mi facevo certo spaventare, anzi.
Tra di noi volavano brutte parole, schiaffoni, morsi e pure graffi. Lei aveva certe manone che sembravano delle pale. Io mordevo meglio d’un sorcio e per staccarmi ci si dovevano mettere in tre. Poi però arrivava quella guasta feste della signorina Cesira che mi trascinava fino alla cattedra tirandomi per una recchia o per i capelli, secondo quello che acchiappava prima.
“Mi devi dare sempre problemi tu, eh?”, diceva.
“Nun ho mica cominciato io.”
“Non ho voglia di sentire le tue solite scuse. Cosa ti ha fatto la povera Angelina? Perché te la prendi sempre con lei?”
“Angelina? Ma quale Angelina? Ma l’avete vista quant’è grossa quella? Sopra lu culo suo ce se pò apparecchià.”
“Sei proprio un’erba cattiva ed anche una gran maleducata. Angelina ha solo le ossa un poco grandi e poi è una signorina come si deve, che arriva da una famiglia per bene, mica come te.”
A me saliva su un nervoso che avrei voluto prendere a brutte parole pure la maestra, ma mi mordevo la lingua e stavo zitta. Che all’epoca mia i piccoli ai grandi non ci potevano dire niente.
Quella, intanto, tirava fuori la riga e si faceva tutta seria, “Fammi vedere le mani”, mi ordinava. E mi dava certi colpi secchi che si sentiva il rumore fino nel corridoio. Angela se la rideva sotto i baffi con tutte le amichette sue. Io invece guardavo fisso davanti a me senza un fiato o una smorfia, perché la soddisfazione di vedermi piangere a quella grassona e, soprattutto, a quel cuore arido della maestra non gliela davo di certo.

Così, un giorno sì e l’altro pure, prima di tornare a casa andavo al ruscello con Pino e infilavamo tutti e due le mani gonfie nell’acqua gelata.
“Tu che hai fatto stavolta?”, mi chiedeva lui.
“Gnente. E tu?”
“Io c’ho lu babbo rusciu. Ogni scusa è bona per darme le mazzate.”
“Ma che vor dì rusciu? Come lu vino? E’ mbriacone come babbo mio?”
“No, vor dire che la penza diversa dalli altri.”
“E tu che c’entri?”
“E che ne so! Se la pigliassero co lui. Mamma dice che per colpa sua la gente ce guarda storto e ce fa lavorà poco”
“Allora è come essere mbriaconi. Uguale uguale”
“Sì ma lui nun me mena”
“Allora è nu poco mejo”.

Continua...

Prologo - 1 - 2

0 commenti